Saturday, September 09, 2006

ladri di crocchette (Tachiguishi Retsuden, di Oshii Mamoru)


Ma che idea, portare sulle schermo le storie dei grandi maestri dello scrocco di cibo dai fast food. Fast food giapponesi, si intende. Dal dopoguerra fino agli anni '70. Un filmaccio tra il documentario e l'esegesi bibliografico-culinaria che lascia stupiti (o stupidi) fin dalle prime inquadrature. Si parte con un cielo cupo di guerra: bombe e nuvoloni (bomboloni?). In un bianco e nero fotografato e poi rielaborato in CG. Poi, quando credevamo fosse un film sulla seconda guerra mondiale, una folgorazione: il volto, ancora in b&n, di un vecchio giappo, secco e lungo, dai capelli grigi lunghissimi e svolazzanti al vento. Chi e' questo tipo? Null'altro che il primo dei maestri scrocconi. Lo vediamo entrare in un piccolo ristorante con una serie di controcampi. E il bello e' che la figura del maestro e' come una sagoma di cartone. Cosi' come ogni altra cosa in scena: tutto bidimensionale. Il ristoratore urlante; il cane bianco che abbaia alla luna; il bancone del ristorante. Sembra Flatlandia portato sullo schermo. Molto strano.
Al di la' di queste innovazioni tecniche (importate dal Canada) il film e' una sorta di finto documentario che prende in giro la ricerca scientifica, mette in ridicolo il sistema delle fonti e delle citazioni, se la ride di autorevoli esperti inventati. Condanna, insomma, quella masnada di specializzati che fanno di minuzie enormi questioni di vita o morte, metodo o caos. Al contempo, pero', Oshii riesce a portare sullo schermo uno scorcio storico della cultura giapponese che raramente si vede. Bello sforzo satirico-stilistico, forse un po' lungo e a tratti stagnante, ma forse anche giustificabile nello slancio parodistico.

Bac,
Mic

1 comment:

Anonymous said...

IL MINESTRONE
Regia: Sergio Citti.
Soggetto e Sceneggiatura: Sergio Citti e Vincenzo Cerami.
Direttore della fotografia: Dante Spinotti.
Montaggio: Nino Baragli.
Interpreti principali: Roberto Benigni, Franco Citti, Ninetto Davoli, Fabio Traversa, Daria Nicolodi, Giorgio Gaber.
Musica originale: Nicola Piovani.
Produzione: Rai.
Origine: Italia, 1981.
Durata: 104 minuti.

La fame, senza metafora. Fame di cibo. Non gola, non vizio né vezzo. Fame disperata perché non si ha un nichelino in tasca. Di questo ha sempre parlato Sergio Citti, consulente linguistico di Pier Paolo Pasolini, suo stretto collaboratore, regista “pasoliniano” per forza e per volontà.

Sergio era il fratello di Franco, l’Accattone per antonomasia. Ed è proprio Franco, in molti casi, ad avviare il girotondo buffonesco e disperato di personaggi che affollano le sue pellicole. Nel Minestrone, ad esempio, si comincia con un movimento di macchina verso un cassonetto. Un carrello sconnesso, come sconnesse e pressappochiste sono tutte le inquadrature di Citti, tutti i suoi “piani” come si dice in gergo cinematografaro d’alto bordo. È raro che lui faccia carrelli, che muova la macchina. Raro come un’inquadratura dalla gru fatta da Ozu. Ebbene, Il minestrone si apre con un’eccezione di stile e butta subito in scena Franco, scapigliato e selvaggio, intento a gareggiare con un cane nell’accaparrarsi un po’ di cibo scartato da altri. Siamo a Roma, periferia, mostri architettonici ovunque e un panorama equamente bisecato tra il grigio della terra e il blu del cielo. Che cosa sono le nuvole? Chiede Ninetto-Otello a Totò-Jago alla fine dell’omonimo cortometraggio, in cui li vediamo burattini scaraventati in una discarica. Se lo chiedono anche Franco e, guarda caso, Ninetto, Ninetto Davoli, che incontratisi nei pressi del cassonetto vagano nel nulla e alzano gli occhi. La fame fa loro veder le stelle. Colorate. Si fermano a guardarle, le indicano. Pian piano si forma una folla attorno a loro, mento all’insù. Arriva la polizia. Li arresta.

Questo è tutto Citti. La povertà cantata senza fronzoli, infiorettata con l’arte di arrangiarsi e con la gioia del dettaglio qualunque. Un gusto zavattiniano per il semplice, il poetico, lo stralunamento bambino. Lo Zavattini dei miracoli a Milano più che delle tragedie romane a base di furti di cicli o di pensionati alla frutta. Citti è uno degli allievi di Pasolini. Uno dei pochi, insieme a Davoli e a Laura Betti, ad averne conservato e modulato la memoria negli ultimi trent’anni. Da lui ha imparato non qualcosa: tutto. Un allievo, Citti, che dal maestro ha attinto passione ma non ideologia. Pasolini si definiva tale: uomo di passione e ideologia. Citti è mosso da un’energia elementale, che tuttavia non viene mai “indirizzata”. Citti fa, gira, e basta. I suoi film non si prestano a molteplici letture o a riflessioni politiche, sociali, estetiche. In Citti quello che si vede, è. E quando in Citti c’è sentore di poesia, questa non è mai sventagliata davanti ai nostri occhi, non è mai pretesa. Semmai, è la poesia naturale del quotidiano. Ci dice: guarda. Non ci dice: guarda così, pensa a questo. È un pezzo di pane, altro non è, il cinema di Sergio Citti. Una pagnotta infarinata di quelle che si spezzano con le mani e si mangiano col pecorino. Ammazza, bòna. Questo è anche il suo merito maggiore, perché è gesto di grande umiltà e onestà intellettuale.

Da Pasolini si può imparare molto, ma ogni tentativo di replica – mo’ “faccio” Pasolini - è destinato al fallimento. Anche Pasolini faceva e basta, solo che ogni sua traccia reca tuttora una prodigalità, uno spessore, una proliferazione di senso che ci docciano, ci infradiciano. E tutto ciò senza tracce di velleitarismo. Uomo di scrittura pura e di pensiero limpido, Pier Paolo non ha mai sbagliato una frase, scritta con la penna o con la macchina da presa che fosse. Sui contenuti è giusto che il dibattito sia sempre aperto. Sulla forma, la lezione è solo da mandare a memoria. O al cuore, come dicono gli anglofoni.

Il minestrone è un film picaresco e sanguigno, che racconta tanto, senza sosta, con un ritmo prodigioso. Spontaneo, questo ritmo del narrare. Costruito alla vecchia maniera tramite una sceneggiatura solida, divertente, variegata, che prende a piene mani dall’immaginario popolare e viene messa in atto da corpi e facce degni di una favola o di una filastrocca d’osteria.

In prigione, ad esempio, Franco e Ninetto incontrano il “maestro” interpretato da Roberto Benigni. C’era una volta – venticinque anni fa – quando Benigni rappresentava la punta di diamante dei cosiddetti “nuovi comici”, la loro avanguardia allucinata, eclettica (radio-tv-cinema) e devastante, armata di un corpo da marionetta e di un sorriso dinanzi al quale mani in alto: Candido, Lucignolo e Gregor Samsa convivevano chiassosamente. Benigni era conteso dal cinema di frangia – Giuseppe Bertolucci per il quale bestemmiò, Ferreri, Jarmush, gli amici Troisi e Arbore, e ovviamente Citti. Questo suo maestro è spaesato come quello che interpreta in Chiedo asilo, ma furbo. Alla bisogna, furbetto: è al gabbio per aver scroccato pasti, cioè a dire sessanta denunce in venti giorni. Per forza, tre pasti al giorno. I tre vengono rilasciati perché qualcosa di grave e indefinito mette i poliziotti in allarme – e qua, più che lo Zavattini di Miracolo a Milano, pare vi sia traccia del Bunuel tardo surrealista degli anni ’70 – e cominciano a vagare, comincia il loro andare a zonzo, a zigzag, a vanvera, un po’ pinocchiesco, un po’ Lazarillo de Tormes: tre cuori puri in giro per il mondo, prostrati dalla fame.

Come nel Fascino discreto della borghesia, questo rito (là era una cena tra amici) non s’ha da fare. Solo che nel Minestrone la questione è scalata di marcia, riportata a monte, anzi a un livello pre-intellettuale: i protagonisti hanno fame ma non riescono a nutrirsi. Le peripezie si susseguono, i personaggi aumentano – una catena viscosa e sgarrupata di affamati si snoda lungo l’ora e quaranta del film – ma il nutrimento è negato a tutti. Fino alla fine.

La pellicola è episodica ma ben congegnata, con un gusto per l’intreccio che si richiama alle favole popolari e al cinema italiano di cassetta degli anni ’50 e ’60. Vediamo i tre – Franco, Ninetto e il Maestro – gabbare un ristoratore romano, e abbuffarsi. Se non che, durante la fuga, capitombolano dentro una pozzanghera fetida e sono costretti a vomitare tutto. Poi dormono in un vagone, che durante il sonno si sposta e li trasferisce in Toscana. Al risveglio chiedono a tutti come arrivare a Trastevere, invano. La consolazione dallo shock geoculturale arriva al pensiero di una trattoria che cucini loro fiorentine a volontà. Peccato che questa trattoria, Ai cacciatori, mantenga quel che promette, e i tre sono costretti a scappare a gambe levate. L’affabilità di Gigi il Trojone è lontana: qua chi non paga viene fucilato a vista. E così i nostri quattro amici dalla pancia vuota – si è aggiunto il cameriere della trattoria, il buon vecchio Fabio Traversa, prelievo morettiano – si trovano alle prese con delle operaie inferocite che li legano al palo per far loro ingoiare escrementi (osarono avvicinarsi al loro sudato pranzo!), incappano in un vecchio ristorante tramutatosi in pompe funebri – rende di più… - si perdono in una cava trasportando una bara e sventano, loro malgrado, il suicidio di un ricco reduce da un furto, che si consola mangiando un pollo intero. Per loro, ovviamente, neanche un ossicino da piluccare. Insieme alla sua famiglia e alla servitù si recano tutti dal padre del potenziale suicida, un facoltoso signorone ossessionato dalla teoria del complotto: è convinto che tutti lo vogliano avvelenare. In realtà è un dubbio che la sua, di servitù, gli ha instillato per potersi cibare di tutto ciò che lui ritiene intossicato e di cui pretende la distruzione. Il figlio fa la spia per riacquistare i favori paterni, e ora è una mandria di poveracci senza tetto e con le pance vuote che vediamo arrivare sulle sponda tirrenica. Anche la servitù “traditrice” – e tradita per disperazione – si è aggiunta al nucleo.

Nei locali abbandonati di un ristorante sul mare si consuma la scena più fiacca del film. Fiacca perché copia di copia, appesantita da troppi antecedenti filmici, primo fra i quali il Chaplin affamato della Febbre dell’oro, fino alla partita di tennis che conclude Blow up. La congrega di affamati si siede a tavola e simula un pasto: fantasia al potere, poesia a tutti i costi. Andiamo oltre, allora, e vediamoli assaltare un barile sulla spiaggia che pare pieno di cibo vero e commestibile. Così non è. Tutti all’ospedale. Lavanda gastrica. Tabula rasa.

In ospedale Citti e lo sceneggiatore Cerami ci riservano un ultimo colpo di coda sia in termini di sceneggiatura, sia di casting. A risollevare lo spirito della ciurma arriva un omone in vestaglia rossa, i capelli scarmigliati, che brandisce l’asta della flebo come uno scettro. È un Giorgio Gaber intento a recitare sopra le righe, tutto smorfie rughe e occhi strabuzzati. Un Vittorio Gassman incrociato con Dario Fo. Il vate li convince ad abbandonare il nosocomio – ne son già morti ottanta anzi ottantuno, dice, vedendosi passare accanto un lettino con i piedi di fuori – e si mette loro a capo. Gli affamati camminano, camminano nel bel mezzo del nulla. Stradine vuote conficcate in panorami immensi. (e qua, di nuovo, link al Fascino discreto). Arrivano sulle Alpi; incrociano una carovana di persone sconsolate che scuotono pollice e indice senza aggiungere altro; ecco la neve, i ghiacciai, il sole senza filtri. Sono arrivati. In tutto questo biancore vediamo i nostri eroi, armati più che mai di fame belluina, e odiamo un canto. Jodel, pare. Non lontano, ometti addobbati con vestiti tipici suonano lunghi strumenti a fiato. Benigni apre il tamburo, ci infila una pallottola di candore e spara come solo lui sapeva fare: “Ma perché ci hai portato fin qua?”. Al che Gaber sghignazza, risponde e ci dà le spalle, su cui scorrono i titoli di coda. La stessa soluzione conclusiva – una frustata o una carezza: dipende – adottata o forse inventata da Godard con Fino all’ultimo respiro e da Fellini nella Dolce vita, entrambi del 1959. La risposta di Gaber è la seguente: “E che cazzo ne so?”.